Negli ultimi 8 anni il reddito medio dei professionisti ha avuto una caduta importantissima, dal 2007 ha perso oltre il 18% e gli psicologi sono tra i professionisti che hanno perso più reddito (dati Adepp, 2015), il fatto di essere in buona compagnia non ci deve però rendere lieti: “mal comune, mezzo gaudio” è – in modo sempre più evidente – un proverbio non solo odioso, ma profondamente scorretto, un mal comune è solo un male maggiore.
Sono dati quindi che ci impongono alcune riflessioni, ve ne propongo due.
La prima riguarda il futuro delle professioni e della nostra professione. I liberi professionisti sono tra i lavoratori più colpiti dai cambiamenti in atto nel mercato del lavoro e, in generale, dai cambiamenti della società. Pensare di rispondere a tali cambiamenti irrigidendo le norme è quanto mai velleitario, la società evolve in fretta e la norma – quando riesce – le sta faticosamente dietro. Il coraggio dell’innovazione, da tutti invocato, è necessario anche nelle professioni. Alcune traiettorie di questa innovazione necessaria sono chiare, vanno verso la sharing economy ed un uso pervasivo di tecnologia.
Si tratta però di innovazioni che – al di là del risalto dato loro dai media – comportano una grandissima flessibilità, che non di rado rischia di sfociare in uno snaturamento dell’identità professionale, nonché nel precariato più nero.
C’è bisogno quindi di politiche di tutela non più solo passive, ma fortemente attive, ed attivanti. Questo è ancor più vero per la nostra, che è una professione “ordinata”. L’idea di una regolamentazione e di una vigilanza da parte dello stato può facilmente indurre ad una duplice erronea attesa, quella che l’ordinamento inibisca la concorrenza di competitori più o meno “legittimi”, favorendo quindi una sorta di mercato protetto, garanzia di possibilità di reddito, e quella di una sorta di “diritto” alla professione, in quanto legalmente abilitato a svolgerla. La scoperta che tali attese sono appunto errate, porta di frequente ad una profonda delusione, che non di rado favorisce un clima di “caccia alle streghe”. Alimentato peraltro da alcuni che giocano demagogicamente a cercare un “colpevole” delle ingiuste condizioni vissute da noi psicologi.
Si tratta dunque di lavorare perché la professionalità degli psicologi diventi più interessante in un mercato nuovo e diverso da quello che l’ha preceduto e, di conseguenza, più capace di produrre reddito. Questo – secondo me – richiede tre cose:
Questa è la richiesta che la comunità professionale pone ai suoi diversi organismi di autogoverno. Innanzitutto agli Ordini, ma anche alla nostra Cassa di Previdenza, sempre più coinvolta, a torto o a ragione, nelle trasformazioni della professione e dei professionisti.
In Lombardia Professione Psicologo e la maggioranza ordinistica che ad essa si riferisce si sono molto spese in tal senso: dalle iniziative di tutoring dei giovani (e meno giovani colleghi), tutte centrate sul tema della loro occupabilità, ad iniziative culturali di ampio respiro (si pensi alla Casa della Psicologia), finalizzate a diffondere una “buona” immagine della psicologia e degli psicologi. “Altri” preferiscono una protesta sterile, quando non faziosa.